Le capre di Fez

Il turista che varca le porte della Medina di Fez senza l’ausilio di una guida locale sa che per raggiungere la sua destinazione, sia essa una piazza, una moschea o un ristorante, dovrà orientarsi in un dedalo di 9000 vicoli. E sa anche che non potrà contare né su cartelli stradali né tantomeno sull’aiuto dei locali, in particolare bambini, che anzi tenderebbero a sviarlo ancora di più, cosicché, ormai totalmente smarrito e sfiduciato, possa tornare ad implorarli di accompagnarlo in cambio di qualche soldo. Perché la Medina é una città araba vecchia di 1200 anni, un grande unico bazar dove tutto ha un prezzo, seppur contrattabile.

Ed é qui che ci aggiriamo io e Sonja, la mattina spesa a seguire i passi di una guida dall’andamento ciondolante, provata dal periodo di Ramadan iniziato da pochi giorni. Dopo averci mostrato qualche punto di interesse e condotto da tutti i suoi amici venditori di pellame, tessuti, ceramiche e tappeti berberi,  l’apatico Cicerone si è dileguato con il compenso in tasca e quindi adesso possiamo contare solo sul nostro senso di orientamento e sul  segnale alterno del GPS.
Decidiamo però di allontanarci dalla tenaglia dei venditori assillanti ed usciamo dalla Medina, per raggiungere in circa venti minuti a piedi una collina appena fuori, su cui sorgono delle rovine. Da là ci godiamo una bella vista sull’antica città di Fez, il paesaggio brullo tutto intorno e, soprattutto, un po’ di tranquillità. 

Decidiamo quindi di rientrare in città , ma, anziché passare dalla strada asfaltata da cui siamo venuti, prendiamo un sentiero un po’ scosceso che scende dalla collina inaridita e pare puntare dritto alla Medina. Scendiamo con attenzione, cercando di non scivolare sui sassi, ma ad un certo punto ci troviamo bloccati perché il sentiero termina con un crepaccio. Rimaniamo incerti sul da farsi, finché non udiamo delle urla in arabo: c’è un vecchio seduto sul tetto di un edificio diroccato dall’altro lato del crepaccio che ci sta dando indicazioni su come aggirare l’ostacolo. Alquanto perplessi seguiamo i suoi gesti e risaliamo un po’ la collina, fino a trovare una scala che ci conduce più in basso verso una strada. Da qui decidiamo ancora una volta di tagliare direttamente verso la città, attraversiamo la strada e superiamo un arco in pietra. 

Ci ritroviamo in un cimitero abbandonato da secoli, con piccoli sentieri tracciati tra le tombe ormai in rovina e radi cespugli. Vediamo la città poco più in basso, ma non ci é subito chiaro quale sia il percorso giusto. Mentre ci orientiamo, da dietro un muro crollato, a circa venti metri, compare una capra nera che ci fissa. “Bellina!” dice Sonja. Ma qualcosa scatta nella logica dell’animale, che emette un verso di guerra e si lancia a testa bassa nella nostra direzione. Ci voltiamo e cominciamo a correre nella direzione opposta. Nonostante i sandali Sonja va via leggera tra rocce e lapidi mentre io la seguo mantenendo un’eroica posizione tra lei e l’ovino infuriato. Corriamo senza meta, dietro di noi un verso a metà tra un grugnito ed un belato. Mi volto e vedo che la capra, molto più a suo agio su quel tipo di terreno, é a pochi metri di distanza. Mi rendo conto che lo scontro è ormai inevitabile e rallento, preparandomi al contrattacco.
E proprio a quel punto si alza di nuovo la voce del vecchio, che ha seguito tutta la scena dalla sua posizione sul tetto dell´edificio diroccato. Stavolta però non si rivolge a noi, ma alla sua capra agguerrita, che riconosce la voce del padrone e si arresta, blandita. Lo ringraziamo con un cenno e proseguiamo con passo accelerato per il sentiero che avevamo imboccato durante la fuga. Per il nostro sollievo, dopo una lieve curva il viottolo si tuffa tra le prime case. Entriamo in città al tramonto, in tempo per vedere i suoi devoti abitanti che, appena finito il Ramadan, si affrettano a procurarsi del cibo.

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